Appena prima delle vacanze pasquali, quando ci giunse la richiesta di scrivere un articolo per “Auftakt”, l’atmosfera nella nostra classe era tesa al massimo. Il corso fino a quel momento ci aveva regalato momenti belli e molte conoscenze, proprio in un senso comunitario; quest’ultimo anno ci metteva ora in grande agitazione. Le richieste che il corso ci pone sono estremamente alte; siamo impegnati tutta la giornata, ma non riusciamo mai a fare tutto ciò che dovremmo. Una condizione frustrante. Dopo Natale crebbe in noi la convinzione di dover portare a termine tutto e ogni studente si è trovato spinto al limite della propria resistenza. Questo ha portato a confronti, intolleranze, impazienza e sospetti fra noi a cui non eravamo abituati.
Gli anni di studio ci hanno donato grandi trasformazioni, ci siamo sempre sforzati, e non di rado ci siamo sentiti sovraccaricati ma, benché fossimo al limite, ci è risultato chiaro per quel che viveva fra noi. A che cosa può servire? Che senso aveva portare gli studenti in quella situazione – non eravamo più al primo anno per penare così – oppure sarebbe stato meglio pretendere meno, ma lavorare in modo più sano e approfondito? Queste domande nascevano in quel momento, anche nello scambio con le euritmiste diplomate che ci aiutavano. Io non conoscevo la risposta, ammesso che ve ne fosse una chiara. Lo sguardo retrospettivo sull’ultimo trimestre, quando tutti volevano esprimersi, suscitò in me la domanda: “Come posso riconoscere il bello nella visione di un mio compagno e come posso mettermi a sua disposizione perché possa manifestarsi?” L’ideologia secondo la quale tutti noi dovremmo evolverci come uomini e diventare abbastanza buoni da volere tutti la stessa cosa, per seguire senza conflitti gli a stessi impulsi artistici, l’ho decisamente abbandonata durante quest’anno. E questo è bene secondo la mia attuale prospettiva, infatti ora più di prima riconosco che non è importante “evolvere” verso la medesima cosa, ma che solo dalla differenza, attraverso una individualità, può realmente nascere un’opera d’arte. L’essenza di una persona si mostra innanzi tutto nel modo in cui è diversa da me – imparare la socialità non può significare annullare le differenze, perché allora nessuno potrebbe evolversi verso se stesso.
La fine degli studi fu per me come un passaggio oltre il limite che io, oppure il mio gruppo, ci eravamo prefigurati. Si mostrò come in noi vi fosse molto di più di quanto sapessimo, di quanto riuscissimo a vedere, quando ci vennero prese tutte le forze e la voglia: posso arrivare più lontano di quanto avessi pensato. Posso ritrovarmi oltre quel limite, non in me e nella mia sicurezza, ma nell’istante inaspettato, scomodo e vulnerabile nel quale il mondo esterno diventa in effetti il mio mondo interiore. Così diventiamo realmente noi. Nella comunità ci siamo reciprocamente aiutati e insieme ci siamo esposti al caos, abbiamo abbandonato le comodità sociali, e ci siamo riconosciuti come singolarità. Probabilmente solo da quel momento siamo potuti diventare produttivi con l’euritmia. Questa è perlomeno la mia sensazione e io la vivo come un grosso dono che questa formazione finora mi ha portato e per questo sono grata a chi mi ha preceduto su questo cammino. È forse una delle esperienze originarie della formazione in euritmia: diventare un altro perché si diventa se stessi.
Franka Henn